“Jung e Hillman, eretici l’uno dell’altro, ovvero quando l’eresia diventa necessità”

di Eldo Stellucci


Il 27 ottobre 2011, nella sua casa di Thompson, è spirato a 85 anni James Hillman ammalato da tempo di cancro, uno dei più creativi, polemici e fertili innovatori del pensiero junghiano. Questo evento acquista una sua ulteriore significatività perché è accaduto esattamente nell’anno del cinquantenario della morte di Carl Gustav Jung. Con grande commozione Riccardo Mondo, analista junghiano del CIPA che assieme a Luigi Turinese ha fondato nel 2006 a Catania l’Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica, con James Hillman Presidente onorario, commemorando il maestro di Dallas, ha sottolineato come “la morte di ogni autentico pensatore spenga una piccola fiammella di luce che rischiara tratti del nostro percorso. La sua improvvisa mancanza crea ruvidi veli di tristezza agli amici, agli studiosi, agli appassionati lettori che si sono nutriti del suo pensiero”. Ricordiamo a questo proposito, l’interessantissimo dialogo epistolare tra James Hillman e le voci più significative della psicologia analitica e della cultura italiana, “Caro Hillman…” raccolto da Riccardo Mondo e Luigi Turinese.

Non ci addentreremo in una rivisitazione critica del suo pensiero, tuttavia ciò che vale la pena sottolineare nello junghismo contemporaneo e tra i postjunghiani, nelle tre rispettive scuole  riportate da Samuels (quella di Zurigo o classica, quella clinica evolutiva e quella archetipica o hillmaniana) è che il pensiero di Hillman si è caratterizzato sempre più intensamente per una forte propensione polemica e “deletteralizzante” e viene considerata tra gli addetti ai lavori fortemente “eretica”. Non a caso James Hillman è stato molto più apprezzato in ambienti considerati tradizionalmente extrajunghiani o addirittura laici rispetto alle scuole tradizionali di psicologia analitica per l’enfasi e la rivisitazione della teoria degli archetipi e del concetto stesso di anima. Abbiamo detto all’inizio che la morte di Hillman si colloca in coincidenza di due eventi importanti, il cinquantennale della morte di Jung e la contemporanea pubblicazione del Liber Novus, il libro Rosso.

Nel 1986 il CIPA organizzò un importante convegno sull’eredità psicologica e culturale di Jung a 25 anni dalla sua morte. A quel convegno partecipò anche James Hillman, l’eretico. Ed è proprio a partire da questa visione da eresiarca con cui voglio avvicinarmi al ricordo e al pensiero dello studioso americano recentemente scomparso. Ricordare Hillman che ricorda Jung. Il discepolo che ricorda il maestro, e che in qualche modo ribaltandone provocatoriamente il ruolo, diventa a sua volta maestro del discepolo Jung. Cercherò di riprendere  il senso di quello scritto rivisto a distanza di 25 anni dove Hillman enfatizzando il demoniaco di Jung ,in un certo qual modo appropriandosene, indica essere questa  la vera strada dell’eredità culturale del maestro di Zurigo. L’eretico Hillman analizza a sua volta il maestro, l’eretico Jung. Odore di sulfureo e di eresie. Profumo di grandi processi creativi.

Hillman compie un lavoro di analisi storica e sintetica della collocazione culturale e psichiatrica di Jung all’inizio della sua attività. Il maestro di Zurigo si era trovato in un contesto straordinariamente fecondo nel periodo precedente la “scoperta” della psicoanalisi freudiana nel suo lavoro presso l’ospedale psichiatrico Burgholzli. Jung rispetto alla psichiatria di allora incominciò “a fare domande nuove ed eretiche”. Per Jung l’inconscio debordava, usciva fuori dagli schemi definiti. Era presente ovunque. Jung puntava direttamente a quell’”esse in anima” con cui si sarebbe confrontato duramente negli anni successivi (libro Rosso, “Sette sermoni ai morti”).

Dice Hillman, “la svolta eretica [di Jung] consisteva nel fatto di prendere “gli altri” nel modo più serio, dando uno sfondo alle loro ideazioni, intenzioni e tratti, sostanziandoli con analogie letterarie e storiche”. Jung si confrontava con la follia e come dice Hillman, “incontrò la radicale indipendenza originaria degli altri con la radicale indipendenza della sue proprie idee”. Jung si addentrò nella differenziazione e arrivò a dichiarare che “la differenziazione significa lo sviluppo delle differenze, la separazione delle parti dal tutto”. Non sarà la completezza a chiarire ed esprimere l’individuazione, processo cardine del sistema junghiano, quanto invece la separazione tra le parti. Dirà espressamente: “ la differenziazione significa sviluppo delle differenze”. Hillman enfatizzando questi lasciti di Jung li dilaterà fino alle estreme conseguenze. Già in queste poche parole si comprende come e dove si esprimerà il daimon di Hillman, dove lo vorrà portare. L’archetipo della “differenza” dunque. Aggiungerà: “ La differenziazione dà il senso dell’essere diverso, il sentimento della diversità, di differenziarsi da sé e dagli altri.[…] E’ il sine qua non di una coscienza differenziata”.

E con queste iniziali riflessioni si delinea la discesa verso il radicalismo, verso il mondo ctonio dell’eresia così cara a James Hillman. Addirittura riferendosi a Jung, “l’autonomia delle parti che noi sperimentiamo come sintomi è la prima evidenza di una differenziazione radicale”. Vediamo pertanto come si verrà a costituire per Jung quel territorio dove il disagio psichico, la nevrosi sarà elemento strutturante dell’intero processo individuativo, che a sua volta Hillman metterà successivamente in discussione, deletteralizzandolo.

“Individuazione e patologia sono inseparabili”. Il pensiero critico di Jung e di Hillman confermati dalla clinica si definiscono all’interno di un preciso ordine di coerenza e di ribaltamento dei codici dominanti, “l’individuazione [può avvenire] ogni volta che le regole e le abitudini del soggetto vengono destabilizzate. Siamo le vittime dell’individuazione, non i suoi promotori”. Ed ecco dove Hillman coglie perfettamente la natura epistemologica del pensiero junghiano. L’approccio che Hillman vuol far emergere è il modo con cui Jung osservava la realtà psichica, la sua propria “visione in trasparenza”, il suo modo di vedere, “non il campo, ma come è stato arato”, non ciò che vede, ma “come lo vede”, “non la luna ma il modo complesso di indicarla”. In questo senso Hillman è profondamente junghiano. Ma aggiunge: “Credere che promuovere la psicologia di Jung sempre più verso l’inconscio sia proseguire su questi argomenti, vuol dire arare più a fondo gli stessi solchi e raccogliere un più modesto raccolto. Peggio, si tratta di letteralismo errato. Perché l’inconscio non risiede nei campi dove egli l’ha trovato; l’inconscio si prende alla lettera; cerca di rimanere inconscio, così è sempre vivo”. Citando Eraclito, “la natura ama nascondersi”, segna il punto dove in qualche modo l’eresia si radica nel suo stesso superamento. Ecco dove il ponte inaugurato dal maestro incomincia a scricchiolare sotto i possenti e al tempo stesso rispettosi passi dell’allievo. “Ciò che è radicalmente innovativo non segue la corrente”.

Per Hillman, Jung destabilizzava l’usuale, il prevedibile. Ed è proprio questo paradigma che rende ragione di ciò che scandalizza, dell’eresia stessa. Ed è questo senso della radicalità che la parola stessa esprime, nel senso di tornare alla radice, alla radix, agli archai. “Le radici non si adattano, le radici rifiutano accomodamenti”. Questa radicalità che Hillman attribuisce a Jung è in realtà la base della stessa radicalità di Hillman, della sua stessa radicale destabilizzazione dell’usuale. Dirà bene che “arrivare alle radici della sofferenza, la sofferenza inconscia, la sofferenza dell’inconscio, delle radici è stata ed è la preoccupazione della terapia radicale”. E qui c’è tutto il pensiero di Hillman ma anche quello di Jung, di quello Jung devoto dell’arcaico, del patriarca, del conservatore tradizionale. Radicalità e conservazione si ricompongono.

Hillman concluderà la sua riflessione sull’eretico Jung dicendo :

“L’inconscio è dove è da sempre, ai confini della coscienza, intrecciato alla coscienza, dove non guardiamo o non vogliamo vedere. L’inconscio ci circonda. Siamo immersi nella psiche. Come insistevano gli alchimisti, l’oro delle potenzialità si trova nel brutto spreco di ciò che abbiamo a portata di mano. Lavorare questa materia prima dell’inconscio reale è sempre stato compito dell’artista che non esprimeva soltanto la sua personale sofferenza, ma rifletteva il tormento dell’anima mundi, la sofferenza nelle radici. Per l’artista io intendo artifex, l’artefice, sia esso artista, alchimista o analista. Colui che raccoglie i legni trasportati dalla corrente, i suoi cacofonici, i pezzi di bricolage e restituisce questa inconscietà alle sue radici. L’artifex lavora con l’anima nell’anima mundi”. Credo che James Hillman fosse tutto questo.

James Hillman come Carl Gustav Jung, allievo e maestro l’uno dell’altro, incarnano ciò che il maestro Zen  Gempo Yamamoto ci dice :

“All’età di sessant’anni, si è più efficienti che a cinquanta; a settanta si è più efficienti che a sessanta; a ottanta si è più efficienti che a settanta. Ma la nostra vita reale inizia dopo che noi siamo partiti dal nostro corpo corporeo”.

Un aforisma di Roshi riportato da David Rosen dice:

“If you cannot return home, yourself is not true self”.

James Hillman è ritornato ora alla sua casa.


Bibliografia :
-     AA.VV., Presenza ed eredità culturale di C.G.Jung, Raffaello Cortina, Milano 1987            
-         James Hillman, Il demoniaco come eredità di Jung, in ib.,pp.93-102
-         Stanton Marlan (Edt.) Archetpyal Psychologies. Reflection in honor of James Hillman, Spring Journal Books, New Orleans,2008 


Contributed by Eldo Stellucci 20130808


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--Brandon WilliamsCraig.....2013-08-09 00:17:41 +0000